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Tacchino alla canzanese

Tacchino alla canzanese
- Autore: Marco Romualdi
- Le sue ricette
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Ricette di una volta, ricette di un secolo fa.

Per un momento sono stato in dubbio se trasformare uno scritto sul Tacchino alla canzanese ritrovato nel fare ordine tra vecchie carte familiari, in una ricetta da mandare agli amici di MisterCarota.it, oppure se mandare lo scritto "tel quel". Poi ho capito che questo scritto conteneva si' una ricetta, ma anche altro che poteva essere di altrettanto interesse ad appassionati di cucina. Citazioni e ricordi, osservazioni e commenti che ne fanno in qualche modo uno spaccato di vita personale, ma anche una quasi-pagina di dotto libro di cucina.
Poiché lo scritto è in realta' un "autografo" ho deciso di lasciarlo cosi' come l'ho trovato, in modo da non alterare il suo intriseco sapore di "ricordo familiare" e di quadretto di un mondo ormai lontano nel tempo.
Soltanto una breve premessa, per inquadrare il titolo della ricetta. Innanzitutto, Canzano: è un piccolo paese abbruzzese, piu' precisamente della provincia di Teramo, che a mio avviso non ha lasciato altri segni di "leggenda" che questa benedetta ricetta. Dico benedetta perchè - come si intuisce anche dalle note in calce allo scritto sotto riportato - sembra che intorno ad essa siano nate delle discussioni di non poco conto. Non so ne esiste una versione ufficiale (del che dubito, perché non ho mai visto dire una parola ultimativa in materia di ricette, mai!), fatto sta' che ho visto parecchie versioni di "tacchino alla canzanese". Le differenze, vi posso assicurare, esistono. Non le ho provate tutte, ma quelle che ho provato non soddisfano quanto quella che ora porto a voi. Orgoglio di famiglia? Ma, chi puo' affermarlo? E chi puo' negarlo del tutto?

Preparazione:
Si rompono le ossa ad una bella tacchinotta, tenuta intera.
Schiacciata ben bene, salata, pepata, con dentro qualche spicchio d'aglio intero e rosmarino, e legata, si mette a cuocere in un tegame, ben pigiata e stretta.
Condire con un po' d'olio o strutto, un buon bicchiere di vino bianco e acqua bollente, che la copra appena, e far rosolare dolcemente e lentamente al forno.
Quando la tacchina è cotta e il brodo ridotto a meta', si toglie il volatile, il brodo si passa, si versa sul gallinaceo e poi tutto si pone a gelare, per servire la carne in gelatina.
Per formare la medesima, è bene aggiungere un ginocchio di vitello e le zampe del tacchino e per maggiore sicurezza, un dado da gelatina.

Note:
1. Una buona rottura d'ossa è giovevole al tacchino morto, come a tanti uomini vivi: anzi, il gran gastronomo teramano avvocato Giuseppe De Dominicis, in suo scritto sostenne che mettere al fuoco un tacchino disossato è pura eresia. D'altra parte, servire a tavola la sola carne, in pezzi, è comodo ed evita le schegge di osso, pericolose. La conciliazione delle due esigenze puo' trovarsi nel disossare l'animale dopo la cottura, prima di versarvi sopra il brodo. Una variante, puo' essere quella di disossare il volatile prima della cottura, da farsi poi nella stessa teglia tenendo distinte la carne e le ossa pestate.

2. Il sesso del volatile non è da prendere a gabbo. Si direbbe che del tacchino è vero quel che è certissimo della specie umana: essere la femmina migliore del maschio. E nella tradizione di casa Romualdi, sorta a Notaresco, paese non lontano da Canzano, si conserva il ricordo di quel segretario comunale, che, noncha' donnaiolo, era anche cosi' esigente buongustaio da rifiutare di cibarsi di un tacchino che non fosse una tacchina. Ma ora, in citta', chi sa riconoscere il sesso di un gallinaceo prima che sia sventrato? Ed è poi vero che questo è un problema tanto importante, se il citato autore non ne parla? E che dire dell'altro problema: se sia da ammettere un tacchino alla canzanese che non sia nato nonche' a Canzano, neppure in Italia, e venga magari dalla Nuova Zelanda (n.d.r: il riferimento alla Nuova Zelanda non è originato dalle recenti competizioni veliche di Coppa America, perche' l'autore dello scritto neanche sapeva dell'esistenza di una competizione cosi' coinvolgente.), e sragionato poi chissa' quanti mesi in frigorifero. Comunque, certo non ruspante, ne' nutrito di noci, la qual condizione era ritenuta inderogabile al buon tempo antico.

3. Quello dell'aglio, è il massimo dei problemi, e non si pua' eludere. Quanto aglio? Il tacchino alla canzanese è come il minestrone e come la vita: sempre uguale e sempre diverso, a seconda dell'aglio. Conviene ridurre le variazioni. Sembra che una testa per mezzo tacchino di peso mediocre, ovverosia due teste per un tacchino intero, sia condizione necessaria e sufficiente. Si deve pure tenere presente che l'aglio dei nostri tempi è alquanto scipito rispetto a quello di un tempo. Quante incertezze! (n.d.r: è assolutamente vero che l'aglio di oggi sa di poco, anche quello rosso che mia moglie raccomanda come l'unico apprezzabile, per cui è bene aumentare le dosi, se si vuole raggiungere quel leggero sapore agliato che è l'obbiettivo e il vero punto di forza di questa ricetta.)

4. Il ricordato De Dominicis concede anche il lauro e la salvia. Tace del pepe, che tuttavia è consigliabile, con qualche larghezza.

5. Sia ampia la teglia, perché il brodo non si riduca di troppo, e con esso poi la gelatina. E si volti il tacchino a meta' cottura in modo che si rosoli da ambedue i lati.

Ecco, la ricetta è finita, non resta che provarla. Quelle volte che l'ho eseguita ho ottenuto largo successo e... mi sono assicurato un ottimo argomento di discussione tra amici: l'aglio andava lasciato a spicchi interi, ma pelati oppure no? il sapore era sufficientemente agliato oppure no? e cos? via, almeno un'ora di calore intorno al tavolo!

di Marco Romualdi

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